di Roberto Allasia

Da quel giorno, Bruno Neri detto “Berni” diventerà per tutti il calciatore partigiano.
Una vita da mediano come dice una nota canzone di Ligabue, a recuperare palloni ma anche a servire assist per gli attaccanti di Fiorentina, Torino e della Nazionale allenata da Vittorio Pozzo.
La libertà deve essere difesa con forza e coraggio.

Esattamente come il proprio portiere durante i novanta minuti di gioco. Bruno Neri lo fece.
13 settembre 1931, partita inaugurale dell’Artemio Franchi di Firenze.

Sul terreno di gioco si scontrano Fiorentina ed Admira Vienna, squadra austriaca.

Lo stadio è gremito: 12mila spettatori attendono il calcio d’inizio.

Ma durante il Regime è consuetudine che tutti gli atleti omaggino il pubblico con il saluto romano ed è così che tutti fanno ma non Bruno Neri. Il calciatore dei viola, esponendosi in prima persona, non alza il braccio rimanendo imperturbabile. Un gesto estremamente significativo quello di Neri, che era un antifascista.

Sapeva che quel rifiuto gli sarebbe costato caro: prima o poi.

Il faentino non era un uomo qualunque. Frequentava teatri, musei, pinacoteche e il Caffè Giubbe Rosse dove incontrava poeti come Eugenio Montale e letterati come Carlo Bo.

Leggeva molto e capiva da che parte stare: sia in campo sia fuori.
Nel 1937, dopo un periodo alla Lucchese, passò al Torino e ci giocò fino al 1940 quando, a trent’anni, chiude la carriera nella sua Faenza che, poi, lo sceglie anche come allenatore.

Nel frattempo la Seconda Guerra Mondiale impazza.

Lui, calciatore famoso, poteva defilarsi ma scelse di lasciare uno status da privilegiato per schierarsi a fianco dei partigiani: un atto di coraggio non indifferente. Il cugino Virgilio faceva parte dell’Organizzazione Resistenza Italiana, in stretta connessione con l’Office of Strategic Service americano e il Comitato di Liberazione Nazionale.

Lui, che da giocatore faceva da collegamento fra difesa e attacco, fu impiegato come «ponte» fra le brigate partigiane.

Era un leader naturale e gli venne dato il nome di battaglia «Berni».

Fu poi nominato, quasi subito, vicecomandante del Battaglione «Ravenna» capitanata dall’amico e cestita «Nico», ovvero Vittorio Bellenghi. Guidavano una ventina di partigiani sulle montagne dell’Appennino tosco-emiliano che avevano compiti di collegamento per la trentaseiesima Brigata «Bianconcini» a ridosso della Linea Gotica.

Lunedì 10 luglio 1944, i due capi della «Ravenna» erano in perlustrazione per assicurarsi che un sentiero sul Monte Lavane fosse libero dai nazi-fascisti perché, fra il 16 e il 20 luglio, il Battaglione avrebbe dovuto recuperare dei sacchi sganciati di notte dagli Alleati.

Mentre si inoltravano nei boschi, però, vicino all’Eremo di Gamogna, s’imbatterono in un drappello di quindici tedeschi che iniziarono a sparare a raffica. Loro risposero al fuoco, provarono a fuggire ma i nemici erano troppi e non ebbero alcuna pietà di loro. I corpi crivellati di «Berni» e «Nico» furono lasciati sul selciato, a pochi passi dal cimitero.

La sua memoria è ricordata a Torino con un «toret», una delle caratteristiche fontanelle che sono sparse per la città, in piazzale San Gabriele di Gorizia, all’imbocco di via Filadelfia inaugurata il 27 marzo 2019 dove il Museo ha partecipato.

Ma nelle nostre sale abbiamo l’onore di esporre una delle tre maglie azzurre che Bruno ha indossato nella sua carriera.

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