di Domenico Beccaria

Oggi voglio parlarvi di Giancarlo.

Giancarlo è un vecchio tifoso granata, che gravita sugli ottanta e che quindi, per ragioni anagrafiche, ha avuto la fortuna di veder giocare il Grande Torino. Lui non è semplicemente un tifoso, è anche un attento storico e collezionista di cose granata, ma non solo. È molto di più, ma non vi sto a dire cosa, perché non voglio che sia possibile identificarlo, in quanto Giancarlo oggi incarna alla perfezione una sorta di Milite Ignoto, un soggetto che proprio perché sconosciuto, può rappresentare alla perfezione un tutto, purtroppo in via di estinzione.

Ci conosciamo da tanti anni, per motivi legati all’attività del Museo del Grande Torino, e mi ha sempre parlato con grande competenza e passione delle cose granata. Al nostro primo incontro mi raccontò di quando, bambino che stava nel cortile del Filadelfia, (all’epoca non era chiuso) venne preso in braccio da Valerio Bacigalupo, che dopo averlo sollevato e avergli dato un buffetto, gli regalò una caramella. L’emozione e l’ammirazione fu tale e tanta, che per qualche giorno non si lavò la guancia dove si era posata la mano del portiere degli Immortali. 

La tragedia di Superga lo ferì profondamente, come la quasi totalità degli italiani, e rafforzò la sua fede granata, che resistette ai rovesci sportivi che si susseguirono, più frequenti delle soddisfazioni, come purtroppo tutti noi ben sappiamo. 

Sabato 25 gennaio, poco prima di mezzanotte, dopo che il Torino FC aveva scritto una delle pagine più vergognose della sua ultracentenaria storia, mi ha chiamato, con la voce rotta dalla commozione sparandomi una domanda tagliente come una lama di rasoio: “Mecu, ma che fine ha fatto il Toro?”.

Già, che fine ha fatto il Toro? 

Sicuramente quel coacervo di ragazzotti svogliati, senza idee e senza dignità che è sceso in campo e vi ha stazionato per novanta minuti, senza agiocarne nemmeno uno, non è il Toro. A dirla proprio tutta, non è nemmeno il Torino, perché anche nelle prestazioni più scarse degli ultimi anni, qualche sprazzo di orgoglio, qualche barlume di dignità, si era scorto. 

Sabato sera nulla, encefalogramma piatto dall’inizio alla fine. 

Uno e mezzo i giocatori da salvare. 

L’uno è il solito inossidabile, granitico Sirigu, di cui non bastano fiumi di inchiostro per tesserne le lodi e cantarne le qualità, che malgrado il risultato schiacciante, è stato ampiamente il migliore in campo dei nostri, salvandoci da un passivo ancora più umiliante. 

Il mezzo è Lukic, che nel marasma del naufragio generale, ha avuto una scintilla di orgoglio e di reazione, commettendo un fallo gratuito ed inutile, che gli è costato il rosso diretto ma che almeno ha dato un pallido segnale di quanto gli stesse sui coglioni essere deriso ed umiliato dagli avversari.

Si sa che la vittoria ha mille padri, mentre la sconfitta è orfana, ma non è possibile far finta di non vedere, tentare di negare l’evidenza dei fatti, che hanno inciso nella pietra i nomi e cognomi dei genitori di questa cosa vergognosa, mi rifiuto di chiamarla squadra, che l’altra sera, ma non solo, ha trascinato nel fango la maglia granata. 

Walter Mazzarri, che ha confezionato gli schemi (?) ha dato il gioco (?) ha infuso lo spirito (?) ai suoi giovanotti, che ha il coraggio di chiedere lo sfoltimento di una rosa che invece andrebbe rinforzata, almeno qualitativamente se non numericamente, visto che sabato sera, complici infortuni e squalifiche, in panchina non c’era un centrocampista di ruolo e per non restare solo si è dovuto portare dietro un pugno di Primavera, che ha poi immeritatamente coinvolto nella sua Caporetto, facendoli scendere in campo. 

E non contento di questa sua pochezza tecnica, inventa ogni volta scuse più fantasiose e ridicole per giustificare l’ingiustificabile e per tentare di mascherare un fallimento sportivo che è davanti agli occhi di tutti, tiene chiuso il Filadelfia, rende inaccessibile quel cortile dove nessun bambino è più preso in braccio dai giocatori. 

Ma siccome è sempre il capitano, e non mi riferisco al povero Belotti che non lesina mai l’impegno ed il cuore, che deve dare l’esempio, guidare la truppa ed assumersi le responsabilità, è giusto che a rispondere di questi quasi quindici anni di promesse disattese, sia lui in persona.

Urbano Cairo, quindici anni fa, ha fatto molto di più che acquistare dai Lodisti che l’avevano appena salvata dal fallimento, una squadra di calcio. Ha preso in mano la società calcistica più tribolata e leggendaria del mondo e con essa i cuori di tutti i suoi tifosi che, in maniera viscerale ed unica, hanno saputo sopravvivere alla tragedia e da essa trarre la forza per rinascere, ogni volta, più innamorati e fedeli che mai al colore del cuore e del sangue, quel granata profondo che da centotredici anni impregna le nostre maglie e le nostre esistenze. 

Ha raccolto un patrimonio umano, di entusiasmi e di fede, di vastità incommensurabile, messo insieme da Uomini con la U maiuscola, da Vittorio Pozzo a Enrico Bachmann, pionieri degli albori, al trio delle meraviglie Balocieri – Libonatti – Rossetti ed ai loro compagni che sotto la guida ispirata del Presidente Enrico Marone Cinzano, creatore del Filadelfia, fu obbligato a vincere  due scudetti per potersene fregiare di uno, per proseguire con Ferruccio Novo, altro grandissimo Presidente, che con sagacia e passione mise insieme il Grande Torino e, passando per il tribolato periodo della rinascita dove il vecio Enzo Bearzot prese per mano i suoi e li tenne uniti nei giorni della prima storica retrocessione, giungere fino a Orfeo Pianelli ed il suo Toro di Meroni e Ferrini prima e dello scudetto del 1976, primo ed ultimo dopo Superga, per concludere con il Toro di Mondonico, quello che in due anni ha alzato una amara sedie ed una dolcissima coppa Italia.

E lo ha dilapidato.

Nessuno lo obbliga a fare il presidente del Torino, se la cosa non lo interessa più. Ma se lo fa, lo faccia come si deve, come è giusto farlo, restituendo al Torino almeno la dignità e l’orgoglio che sono sempre stati nel suo DNA. 

Sabato sera, a costo di passare per maleducato o insensibile, ho biascicato due parole di conforto e di circostanza per chiudere la telefonata con Giancarlo, che intuivo essere vicino alle lacrime, se non già piangente. 

L’ho fatto per non far sentire a Giancarlo che anche io avevo l’anima che sanguinava, la voce rotta e le lacrime che si affacciavano agli occhi. 

Ma non per il vergognoso sette a zero con cui si erano conclusi i novanta minuti con l’Atalanta, ma per il dolore di dover constatare che l’Ideale in cui ho fermamente creduto ed ho ciecamente amato in tutti questi anni, era stato per la millesima volta violentato, ferito, oltraggiato e vilipeso. 

Per Giancarlo, per tutti i Giancarlo che costellano lo splendente firmamento del tifo granata, non ho timore di urlare BASTA. 

Basta con questo scempio. Faccia qualcosa di granata, che le possibilità le ha, deve solo volerlo.

Oppure, se è convinto che se cedesse il Torino ce ne pentiremmo, ci dia modo di pentirci.

fonte: Torinoggi.it

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